Transito della Venerabile Madre Maria Crocifissa, CP

Confondatrice delle Claustrali Passioniste

Sei giorni prima di morire (segue la relazione), cioè il sabato 10 novembre 1787, si confessò secondo il solito per poi comunicarsi la Domenica mattina. La notte gli subentrò una gran febbre a segno tale, che, la mattina seguente, a stento poté comunicarsi; e quella fu l’ultima comunione che fece, perché restò affatto priva di sentimento fino al mercoledì notte. Il lunedì gli diedero l’Estrema Unzione, e li due Rev.mi Sig.ri Canonici Agostini e Garriga, il primo confessore antico del monastero, e nipote della stessa Madre Maria Crocifissa, ed il secondo confessore ordinario presentemente, a vicenda assistendola di notte e di giorno, non l’abbandonarono più. Tornata in chiari sentimenti il mercoledì notte (come accennai) per la grande aridità delle fauci e difficoltà di respiro, non fu possibile darle il SS. Viatico. Lei intanto tutta rassegnata, contenta, e quieta, in sante aspirazioni passava quelle ultime ore della sua vita, con una tranquillità di Paradiso. Interrogata più volte dalli suddetti Sig.ri Canonici se gli occorreva niente, e se aveva nessuna cosa che l’inquietasse o dasse fastidio, rispondeva subito francamente: Padre no. Pregata la sera a darci l’ultima sua benedizione, prese il Crocifisso e ci benedisse tutte. Intanto l’affanno ed il catarro andava crescendo. Circa le ore 23 del giovedì sera si trattenne buon spazio di tempo a parlare a solo con il Sig. Canonico Agostini, il quale uscì consolatissimo di tal colloquio, e disse: gode una pace, e tranquillità di coscienza di Paradiso! Vedete quanto patisce! Non gli basta, vorrebbe patire di più! Cosa, che cavò lagrime di tenerezza a chi l’udì.

Così durò fino alle 7 ore e tre quarti circa di notte, e subito che le religiose avevano finito di recitare in coro il mattutino, gli venne un insulto di tosse e gli si fermò l’affanno. Conosciuto che ciò era segno della vicina morte, fu suonato il campanello e radunate tutte le religiose nell’infermeria.

Facendo corona al suo letto, dissero le Litanie della SS. Vergine; terminate le quali, incominciarono li tre Pater all’Agonia del Signore, nel qual tempo, invocando fino a pochi momenti prima di spirare li santissimi nomi di Gesù e di Maria, assistita dal Sig. Canonico Agostini, che si trovava presente, rese con somma tranquillità e pace l’anima sua benedetta al Creatore alle ore 8 e un quarto di notte, entrato già il Venerdì 16 novembre 1787.

È da sapersi che la medesima in vita era assai sfigurata in volto per li gran patimenti, e dalla piaga mandava un gran fetore. Morta che fu, si aggiustò in modo da sé le fattezze, che sembrava un’altra, ed era più bella morta, che quando stava in salute viva, e svanì ogni fetore a segno tale, che l’indomane, giorno 17, quando la mossero per seppellirla, che erano 32 ore e più, che era spirata, non si sentiva nessunissimo mal’odore, ed era palpabile e flessibile, come quando era viva.

Ora qui, pria di dar termine al presente capitolo, vorrei che il benigno lettore si riducesse alla memoria la fervida brama, e l’innocente dimanda che faceva da fanciulla nella scuola, situata ove al presente è il monastero, innanzi all’immagine del SS. Crocifisso, cioè: che si degnasse di concederle una piaga, ma che non si potesse vedere. Ora ecco come la consolò abbondantemente, essendo morta piagata come abbiamo udito, e sulla croce. Ma è degno di memoria ciò che c’è pervenuto alle mani, vale a dire, una carta scritta di proprio carattere, che giudichiamo di non doverla tralasciare, ma di riportarla qui.

«Dopo essermi fatta religiosa nel monastero di S. Lucia, perseverando nei miei compassavi affetti verso il mio appassionato Signore, fui ardentemente sorpresa da un ardente desiderio di poter soffrire in me stessa tutti i dolorosi martirii sofferti dal mio amabilissimo divin Redentore, che con tanto suo amore aveva patito per la mia eterna salute e, per ottenere la sospirata grazia, frequentemente ne supplicavo la divina Maestà Sua.

Io ero ancora giovine, e di una complessione assai delicata, ma tuttavia non avevo veruna compassione a me stessa nel maltrattare la mia umanità per amore del mio Signore, e per soddisfare a quanto mi conoscevo debitrice alla divina giustizia. Non contenta di quanto operavo di mortificazioni interne ed esterne, e della pratica delle sante virtù, per amore del mio amabilissimo Signore, sempre più l’anima mia viveva in un ardente incendio di amore verso il mio appassionato divino Amante. Sicché, sospinta dal sopradetto celeste ardore, incessantemente supplicavo la divina Maestà Sua con umili clamori, acciò si degnasse farmi patire e soffrire tutti i dolorosi martirii sofferti nella sua passione per mio amore. Onde gli dicevo spesse volte: tu mihi sponsus sanguinis es (tu sei il mio sposo di sangue) e per tale effetto ancor io voglio essere vostra vera seguace per reciproco amore, che io devo alla divina Maestà Vostra, che ha tanto patito per me povera miserabile. Un giorno fui sorpresa da una veemente divina dilezione, e stanti gli affettuosi clamori dell’agonizzante anima mia in dimandarli tutte le pene e i dolori, che per mio amore aveva sofferti nella sua passione, si degnò di darmi qualche ristoro con dimostrarmi il suo gradimento, con tirare a sé l’anima mia, e con dirmi con molta sua piacevolezza: Ti faccio sapere che tutta la vita mia fu un continuo patire, stanti le persecuzioni, ed i travagli interni ed esterni. Ma gli altri strapazzi e dolori di battiture, di coronazione di spine, e di piaghe li ricevei nel fine della mia vita. Se io ti dovessi dare a patire tutti i dolori della mia dolorosa passione, tu non potresti vivere. E nel medesimo tempo si degnò S. D. M. consolarmi con darmi notizia, che io nel decorso della mia vita avrei sofferto diverse penalità a sua imitazione, e poi mi soggiunse: Così sarai mia seguace: quello che poi ti permetterò di patire nel fine della tua vita… ed avendo detto ciò mi lasciò, senza darmene la desiderata dichiarazione, ma ritenne in se stesso quello che mi vuol dare nel fine della mia vita.

Avendo con umile silenzio inteso quanto si degnò notificarmi il mio amabilissimo Signore, me ne restai placidamente rassegnata nell’adempimento del di Lui divin beneplacito. Altro desiderio non mi restò, che poter adempire la SS. Volontà. E vivendo di lì in poi con una rinnovazione del mio spirito, mediante la divina grazia, e con una mistica morte a me stessa, altra sollecitudine non avevo che, l’adempimento delle mie religiose obbligazioni, per gloria e piacimento della divina Maestà, vivendo sempre disposta a patire tutto quello che il Signore si fosse compiaciuto mandarmi, dicendo: expectans expectavi Dominum (ho sperato: ho sperato nel Signore)» [Sal 39,2].

Fin qui la relazione scritta dalla Serva di Dio, e mandata ad un suo direttore. Se si porrà mente, non solamente alle lunghe tentazioni sofferte, ma di più alle gran desolazioni interne, ed ai dolorosissimi abbandoni spirituali per tant’anni tollerati, si potrà argomentare agevolmente come si avverasse la prima parte della divina predizione, che nel decorso della sua vita avrebbe dovuto partecipare delle pene del suo divin Redentore. Nel fine poi della vita, ecco che col fatto le spiegò ciò che spiegare allora non volle, atteso ché, se ben si riflette, negli ultimi anni fu crocifissa di nome e di fatti, e morì, secondo il suo desiderio, sulla croce dei patimenti. Tanto è vero che l’amabilissimo Gesù, sapendo gli altissimi tesori che ha racchiusi nei patimenti, ed amando grandemente le anime nostre, non manca di essere liberale dei medesimi verso quelle anime avventurate che, conoscendone il gran pregio, istantemente glieli chiedano, per renderle dipoi consorti e partecipi delle sue consolazioni a misura che furono a parte delle tribolazioni: Si socii Passionum estis, eritis et consolationis (Come siete partecipi delle sofferenze così lo siete anche della consolazione)[2Cor 1,7].

M.to Rev.da Madre

Sarà una gran grazia che Dio mi farà, se avrò la sorte di darle l’abito della SS.ma Passione, terminato che sarà il nuovo monastero, ma ne dubito, perché sempre più mi avvicino al sepolcro. Intanto V. R. si apparecchi sempre più colla divina grazia, per ricevere quelle grazie e doni che S. D. M. le tiene preparati.

Tale apparecchio deve consistere principalmente nella vera umiltà di cuore e disprezzo di sé stessa, colla profonda verace cognizione del suo niente. Questa porta seco l’esercizio di tutte le virtù, la regina delle quali è la santa carità ed unione con Dio, con vera astrazione e distacco da ogni cosa creata ed un totale abbandono nel divino beneplacito. Sia vera abitatrice nell’interno del suo spirito, e stia ben chiusa in questo sacro deserto, essendo questa sacra solitudine ricca di ogni bene. In questa divina solitudine, colle porte ben chiuse ad ogni creatura, tutta vestita di Gesù Cristo, si lasci perdere ed abissare nell’Immensa Divinità, ed ivi in sacro silenzio di fede e di santo amore contempli il Sommo Bene e si lasci incenerire nel fuoco della Divina Carità. Non perda mai questa santa solitudine ovunque si trovi o in qualunque opera ella faccia.

Io non manco né mancherò di farle parte delle povere freddissime mie orazioni, massime in questi santi giorni e specialmente nella Solennità Natalizia, acciò S. D. M. la faccia rinascere nel Divin Verbo Umanato a vita deifica deiforme, acciò non viva più lei, ma viva in lei Gesù Cristo. Lo stesso faccia per me per carità e per tutta la nostra Congregazione. Mi saluti nel Signore le sue buone sorelle, e racchiudendole tutte nel Cuore purissimo di Gesù, da cui le prego copiose benedizioni, mi dico in fretta

D. V. R.

Indeg.mo Servitore Obblig.mo

Paolo della Croce

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